I “nostri” ragazzi africani

di Simona Bardini

I ragazzi africani , provenienti da Lampedusa  sono arrivati là alcuni il 5, altri il 6 maggio.

Poi sono stati portati a Manduria, vicino Taranto, un campo allestito per “alleggerire“ Lampedusa, in attesa di destinazione e successivamente sono stati mandati a Chiusi, dove sono arrivati  il 24 maggio, accolti e assistiti dalla Confraternita della Misericordia, che li ha sistemati in un appartamento a Chiusi Scalo e si prende cura di loro.

Questi ragazzi sono molto provati dalla vita, le loro storie sono molto dolorose.

Si chiamano Abdullaye, Abraham, Aziz, Hassan, Isaka, Moussa, Saliu, Stephen. Cinque vengono dal Ghana, uno dal Niger, uno dalla Sierra Leone, uno dal Senegal, due sono cristiani, gli altri musulmani. Sono tutti orfani, due delle loro famiglie sono state uccise da guerre tribali.   

La loro età è compresa tra i 20 e i 30 anni. Uno più grande ha moglie e figli. Quasi tutti hanno lasciato il loro paese per cercare un lavoro sicuro in Libia, paese africano relativamente ricco prima della guerra.

Per raggiungere la Libia hanno fatto un viaggio molto lungo, attraversando prima la Nigeria, dove comincia il Sahara. Il deserto lo hanno attraversato per lo più in tre tappe, in un mese o più, pagando la macchina per ogni tratto, facendo qualche pezzo a piedi, (qualcuno ha dovuto lavorare tra una tappa e l’altra per pagare il tratto successivo, un altro è stato un po’ di tempo in prigione perché non aveva i soldi per pagare una tappa. E’ stato salvato da amici che hanno saldato per lui).

Il ricordo del deserto è per tutti molto duro ,non solo per la sete, il caldo, il disagio, l’angoscia provati, ma anche  per la vista di innumerevoli cadaveri  di gente che ha tentato invano la “traversata.”

Arrivati in Libia hanno trovato lavoro, quasi tutti come muratori, uno commesso in una boutique di abbigliamento. Il lavoro permetteva loro di vivere autonomamente e qualcuno mandava qualche soldo a casa. La vita però non era facile in quanto i libici si comportano da razzisti nei confronti dei  neri provenienti dall’Africa sub-sahariana, e dopo lo scoppio della guerra le condizioni sono peggiorate, sia civili che militari aggrediscono e attaccano gli immigrati.

Tutti questi giovani hanno subito aggressioni  e sono stati derubati di tutto: soldi, cellulare, documenti, televisore ecc, (uno di loro ha il segno di una ferita in un braccio, un altro ha addirittura pagato più volte un libico per non subire aggressioni, ma invano) .Alcuni di loro sono stati costretti, coltello alla gola, a scegliere tra entrare nell’esercito di Gheddafi o imbarcarsi per l’Italia, altri hanno deciso di venire a causa della guerra.

In entrambi i casi il viaggio nella “barca” lo hanno pagato con tutti i loro risparmi rimasti, sembra che al porto di Tripoli  prendano  qualunque cifra uno possieda , 600/ 800 dinar ma qualcuno ha pagato anche 1.000 dollari.

Tutti ricordano il viaggio con angoscia, (solo due sanno nuotare), perché si sta seduti così fitti, attaccati gli uni agli altri che non ci si può spostare di un millimetro, le onde del mare sono così alte che la barca procede con difficoltà per due, tre, o quattro giorni, tra il freddo, la sete , la fame.  Due di loro hanno fatto naufragio, hanno visto morire intorno a sé 107 persone, sono tra i pochissimi superstiti,  che poi hanno ritentato il viaggio con maggiore fortuna.

Due ragazzi parlano francese , gli altri  parlano inglese più o meno bene, tre di loro sono analfabeti.  Solo due hanno frequentato la scuola, gli altri  hanno imparato la lingua straniera con l’aiuto di parenti e amici. In Libia hanno imparato a parlare l’arabo che, a volte, è lingua di scambio tra di loro, in quanto non hanno altra lingua comune,  persino i ragazzi del Ghana , venendo da città diverse, parlano dialetti diversi.

In questi tre mesi di permanenza a Chiusi i ragazzi hanno imparato a gestire il loro appartamento, a tenerlo in ordine, a lavare la  biancheria,  a stirare, a prepararsi la colazione. Non potendo lavorare,  in quanto richiedenti asilo politico, svolgono piccole mansioni presso la Casa di Riposo e  fanno lavoretti in giardino.

Hanno seguito un corso di italiano  per due mesi, due ore al giorno dal lunedi al venerdi, con grande motivazione e interesse (mai un segno di stanchezza o di noia); i ragazzi francofoni hanno appreso con facilità la nostra lingua, gli altri con risultati vari, secondo le loro capacità, due ragazzi analfabeti  hanno imparato a leggere.

Hanno giocato varie volte a calcio con i ragazzi di Chiusi città e qualche volta anche con altri ragazzi immigrati. Un giorno sono stati invitati a visitare il centro storico e a fare una gita al lago dai ragazzi dell’Associazione “Uidù”. Hanno poi visto Siena e l’Amiata. Uno di loro sta seguendo gli allenamenti di calcio presso la Polisportiva. Nel tempo libero vanno in bicicletta o a piedi al lago, ascoltano la musica e guardano la tivù.

Alcuni di loro hanno fatto il Ramadan con grande convinzione, anche se con fatica (perché è vietato anche bere fino al tramonto).

Sono tutti molto educati e cordiali, con quella tipica ilarità africana, con quella grande accettazione della vita,  a noi quasi sconosciuta, con un grande senso di riconoscenza e di affetto per  noi volontari.

Guardando oggi le foto che hanno fatto loro a Lampedusa, sembra quasi di non riconoscerli, perché veramente a quelle facce angosciate e inorridite, serie e silenziose, si sono sostituiti sorrisi smaglianti di bei giovani.

Col tempo, circondati da affetto e rispetto, i ragazzi, perché questo sono per me, hanno cominciato a prendere confidenza con le persone, i volontari e il personale della Casa di Riposo (dove ricevono i pasti) e a relazionarsi, a sentirsi parte della comunità, stanno imparando l’italiano, manifestano la loro vitalità, le loro emozioni, gioie, speranze.

Sanno che qui la vita non è facile per chi è straniero e nero come loro, aspettative ne hanno poche, hanno tutti un unico grande desiderio: poter rimanere in Italia per lavorare.

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4 risposte a I “nostri” ragazzi africani

  1. Abbiamo pensato anche noi alla possibilità di far incontrare i ragazzi africani con gli studenti italiani, chi fosse interessato ce lo faccia sapere.
    Inoltre stiamo “studiando” , insieme a volontari di altri comuni vicini, come poter aiutare i nostri ragazzi a prepararsi a sostenere il colloquio che avranno a gennaio. Si tratta infatti di riferire sulla propria esperienza personale difronte alla commissione esaminatrice che valuterà poi se concedere o meno lo status di rifugiato. Il diniego, a cui segue il rimpatrio è la risposta più consueta, pare.
    Oltre al fatto che questo ci preoccupa ed emotivamente ci sconvolge, che senso avrebbe accogliere i” richiedenti asilo” per sei mesi e poi rimandarli a casa a nostre spese ?
    Per questo motivo ci stiamo attivando per cercare assistenza legale e mediatori linguistici, oltre alla dovuta assistenza sociale per meglio aiutare i ragazzi in questo periodo pre-colloquio.
    Chi avesse proposte o desiderio di collaborare si faccia sentire.

  2. vanna mencaglia scrive:

    Che bello il tuo articolo, Simona, così asciutto e privo di giudizi, ma proprio per questo così toccante. Non vedo l’ora che ricomincino le lezioni per leggerlo con i miei ragazzi e sentire le loro considerazioni.
    Mi piace molto anche l’idea di un incontro, delicato e informale, magari cominciando dalla scuola, ma detesto microfoni, riflettori e tutta la demagogia che in genere si insinua in queste importanti iniziative,

  3. pscattoni scrive:

    Non capisco perché in questo nostro Paese la procedura di riconoscimento dello status di rifugiato politico sia così lunga e complessa. Le persone che oggi vengono ospitate presso la Misercordia sono in attesa di quel giudizio e nell’attesa non possono lavorare.
    La stessa cosa avviene per il riconoscimento della cittadinanza italiana. Uno straniero che ha risieduto e lavorato in Italia per dieci anni ha il diritto di fare domanda per tale riconoscimento. A parte il fatto che nella maggior parte dei paesi il termine è di cinque anni, la media per il riconoscimento si aggira interno ai tre/quattro anni. Di nuovo, a chi giovano questi ritardi?

  4. Grazie per il bellissimo articolo! Spero che adesso le persone si rendano un po’ più conto della situazione di questi ragazzi. Purtroppo mi sono imbattuta in discorsi gretti e ignoranti riguardo a loro, da parte di persone di Chiusi; c’è chi polemizza sul fatto che non lavorano, chi polemizza sul fatto che ci fanno spendere un sacco di soldi ecc ecc… Dobbiamo essere senza cuore per affermare certe cose. Basterebbe solo comprendere un po’. Penso che sia interessante e anche molto utile organizzare un incontro-dibattito pubblico tra la popolazione e loro, così da sentire le loro storie, avviciniarsi di più a loro, coinvolgerli tra noi e COMPRENDERLI.

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