È risaputo che le guerre, soprattutto quelle combattute nei secoli scorsi, hanno sempre portato fame in abbondanza, e più che mai tra i civili, ai quali i governanti lasciavano ancor meno del minimo indispensabile, poiché il grosso delle scorte alimentari era riservato ai militari. A quanto detto, naturalmente, non fanno eccezione le vicende della guerra di Siena (1554-1559), nelle quali anche Chiusi fu coinvolta, essendo parte integrante della Repubblica Senese. Anzi, tra le vicissitudini di questo conflitto quello che emerge con più forza, per povertà e debilità per penuria di viveri, è proprio l’assedio della città di Siena da parte delle truppe fiorentino-imperiali, iniziato nell’agosto del 1554 e cessato il 21 aprile del 1555, con la definitiva capitolazione di resa per fame.
Nel corso della guerra l’antica repubblica e il suo dominio, composto da 104 comunità territoriali: città, terre, castelli, fortezze, rocche, paesi e borghi, divisi in 32 podesterie e 66 vicariati, lottarono tenacemente per difendere la loro libertà, dando luogo a singolari prove di coesione in occasioni avverse e difficilissime. Quello che stupisce, infatti, è come mai, nello spazio di mezzo secolo di miseri raccolti, carestie e continue guerre, le popolazioni assoggettate siano rimaste tanto legate alla capitale, nonostante che la Repubblica Senese fosse stata una piccola potenza, sostanzialmente corporativa e con insufficienti capacità politico-militari. Ed è principalmente in tali occasioni che la popolazione di Chiusi dette grande prova di fedeltà allo stato senese, sopportando con spirito di sacrificio lutti, fame, miseria e dolore.
Il famoso episodio della “Pasqua di sangue chiusina”, che le alte gerarchie militari senesi e francesi non seppero sfruttare al meglio, è lì a ricordarcelo. Ma quello che salta agli occhi, fatto terribile di inaudita violenza sulla popolazione, è il bando che gli “Otto di Reggimento sopra la Guerra”, una commissione governativa per le faccende militari che durante l’assedio di Siena rappresentava il massimo potere politico, deliberò. Vale a dire la creazione di una nuova magistratura: “I Quattro cittadini per distribuzione di Monte, per cavare dalla Città tutte le bocche disutili”. E dopo pochi giorni, per le vie di Siena furono gridate queste parole: “che tutti li refuggiti in Siena, tanto contadini quanto forestieri, dovessero per tutto il dì 6 di Agosto avere sgombro la città con loro famiglia, sotto pena di due tratti di corda, e alle donne e putti di essere frustati”.
Ma chi erano le “bocche “disutili”? Perché dovevano essere cacciate dalla città? Secondo consuetudini spietate dell’ “Arte della guerra”, erano considerate tali tutte quelle persone che, a causa della loro età, sesso, malattie, ossia della loro condizione di poveri, stranieri, contadini, rifugiati, prostitute ecc. risultavano superflue, inutili o addirittura dannose, in quanto solo bocche in più da sfamare. E allora diventava inevitabile che nei casi di assedio totale, o carestia estrema, per proseguire le ostilità, i militari facessero di tutto per allontanarle. E quindi, dopo sommarie selezioni, annotate su apposite liste, le “bocche inutili” venivano allontanate con la forza fuori dalla città. Aggredite e respinte anche dai soldati nemici accampati fuori le mura, queste “bocche” spesso finivano per morire di strazi davanti alle porte chiuse, “con visi così macilenti che parevano l’istessa fame”.
Il maresciallo Piero Strozzi, dopo la sconfitta di Marciano fu sempre un inflessibile sostenitore della necessità di espellere da Siena 7.000 “bocche disutili”, come principale rimedio per salvare la città, dove si stimava vi fossero circa 24.000 persone da sfamare. Tutto questo in attesa di nuovi aiuti militari dalla Francia, sempre promessi e mai mantenuti. Nei mesi di agosto e settembre 1554, sul “negotio delle bocche disutili” il governo di Siena, composto dal Concistoro, Senato e dagli “Otto di Reggimento” per le questioni tecniche della guerra, inviò molte lettere agli alti comandi militari e all’arcivescovo Francesco Bandini, rifugiati in Montalcino. Questa importante corrispondenza evidenzia le diverse posizioni, i fraintendimenti e perfino un’aperta contrapposizione tra le parti. Innanzitutto sul numero delle “bocche inutili”, che i governanti senesi, rispetto ai militari, riducevano a quattromila persone, “come sono contadini e altra gente bassa le quali di continuo si mandano via”.
L’aspetto essenziale per il governo, quando scrivevano all’arcivescovo, era quello della sicurezza della via, che “par ben ragionevole poiché s’usa con queste povere persone questi termini, almeno havessero la strada sicura per potersene partire senza dare in mano de nemici”. Poi denunciavano la grave inefficienza dei “Quattro sopra le “bocche disutili” i quali, una volta iniziato “questo negotio, dipoi o mancasse loro l’animo per vederlo forse intricato, e difficilissimo o la volontà di condurlo a fine, lo lasciorno imperfetto”. Fallì perfino la speciale nomina aggiuntiva di Mario Bandini e di Girolamo Spannocchi a quella magistratura, dapprima accettata, ma poi rifiutata dai due, perché secondo loro non si era aperta una strada sicura per il passaggio delle “bocche disutili…”che venendo in mano alli nemici fanno loro molte stranezze”. Alla fine, per giustificarsi col maresciallo Strozzi, i governanti senesi arrivarono ad incolpare: “li quattro deputati (che) a questo non volevano operare e in molti giorni e settimane che hanno avuto di tempo, non hanno mai operato cosa di momento”.
Se da una parte manifestavano un sincero scrupolo umanitario: “…pare a molti strana cosa il mandar tanti poveretti così al certo in preda de nemici”, dall’altra c’era in quei magistrati la reale paura di un’ “alterazione” della popolazione senese, che si mostrava ostile ai loro provvedimenti, fino alla rivolta. E infatti tutto questo motivò la reazione popolare dell’agosto 1554, volta a impedire che si mandassero via dalla città i poveri dell’ospedale, che erano stati rinchiusi a forza nel Duomo. Infatti i cittadini “aprirno la Chiesa, e furno subbito liberate più che 2.000 bocche inutili”. La disobbedienza dei senesi in difesa dei loro poveri, affinché non diventassero “bocche inutili” dovette essere molto estesa, perché i governanti scrissero a Piero Strozzi dicendo di non essersi voluti “prevaler intieramente della loro autorità, né del braccio de’ soldati, dubitando d’alteratione” e decidendo di non punire “li trasgressori per rispetto de’ tempi”.
Tuttavia l’imposizione pecuniaria annunciata dal bando del 21 agosto contro i “contadini refuggiti” non ebbe effetto perché “I Quattro di Reggimento deputati sopra il purgare la Città dele bocche inutili” dovettero emanare il 30 agosto un ulteriore e più repressivo bando, che avviava un sistema di delazioni segrete e ricatti: “…che non sia alcuna persona… che ardisca, o presumi… tenere dentro delle case loro, o altre case che havessero, pigionali overo dare ricetto a famiglia alcuna o di nuovo prenderne senza espressa licentia loro… dando licentia a ciascheduno che ne possi essere accusatore, guadagnando la quarta parte dela pena pecuniaria e il suo nome sarà tenuto segreto et ogni uno si guardi dala mala ventura”. Il 4 ottobre “fu deliberato per il governo, a richiesta del signor Piero (Strozzi), che il rettore dell’ospedale della Scala mandasse fuora della città 700 bocche, per valersi di 500 moggia di grano, che si ritrovava”. E così diventarono “bocche disutili” anche i frati ospedalieri, gli inservienti, oblati e oblate, le balie che allattavano i più piccoli e perfino 250 “putti”, considerati fino a quel momento “figli della famiglia” di Santa Maria della Scala.
Con brutalità quelle persone furono allora costrette, insieme a molti cittadini precettati, a uscire dalla porta di Fontebranda e, caduti nelle imboscate dei nemici, vennero uccisi più di 100 “infra uomini, donne e putti”. Non vi fu nessuna pietà per loro, nonostante che il vicario dell’ospedale Scipione Venturi, il 3 ottobre avesse inviato al Marignano, comandante delle truppe assedianti, una lettera di supplica: “Si degni concedermi per mezzo di suo salvacondotto ch’io possi cavar sicuramente fuora de la città tutti li fanciulli e fanciulline di questa piissima Casa dello Spedale, de l’età di cinque anni infino a li undici, con compagnia di alquante matrone per il loro governo…per condurle in luogo dove possino più comodamente vivere a onor di Dio e de la sua Santissima Madre, particolar Protettrice di questa piissima Casa”. Ecco invece come si presentò la scena dei superstiti: “la mattina erano tutti fuora di Porta a Fontebranda..a diacere per terra, con grandissime strida e lamenti”….. “Era la più gran compassione a veder quei putti svaligiati, feriti e percossi in terra a diacere…”.
Molte cose ancora ci sarebbero da dire su quei cinque lunghi mesi che mancavano alla fine dell’assedio e sulle nefandezze commesse, ma mi fermo qui. Però, prima di concludere voglio riportare la testimonianza di una lettera, spedita e mai giunta a destinazione, che fa parte di un faldone custodito nell’archivio di Stato di Firenze contenente documenti intercettati, e requisiti, dalle truppe fiorentino-imperiali durante l’assedio di Siena. Si tratta di un foglio ingiallito dal tempo dove Laura Boninsegni, il 16 novembre 1554, scrive al marito Giulio, commissario senese in Valdichiana, che in quel momento si trovava proprio a Chiusi, riportando notizie di famiglia e la difficile situazione alimentare.
[…] Giulio mio carissimo, ier l’altro vi scrissi ma per paura che la non fosse come l’altra vi rescrivo e di nuovo vi replico el medesimo e vi dico che aviamo grano per tutto ferraio, e dell’olio ancor non cene manca, ma dell’altre cose si può corri da questo mese in la ci aremo un poco di fave et non altro. V’ò mandato più volte a chiedare parecchie mandorle e un poco di zuccaro di gratia se l’è possibile che non si manchi che mi parrà avere in casa un grande assegniamento per ogni bisognio che si possa venire. Ancor la prego che scriviate al governo che mi sieno dati denari acciò che quando si può aver da vivare non resti per denari. Noi ci arrendiamo, ché non potiamo più reggiare di questa vita, e fine adesso è stato un oro, perché aviamo auto del vino, de la carne salata e del cacio, e hor non aremo più niente […] Ne verrebbe presto el tempo di far de’ porci ma a noi ci restarà la voluntà. Hor vedete se vi par da farne costà uno e quando si potrà si farà venire. Ma forse innazi che sie el tempo ho noi sarem fuor d’afanni ho noi saremo ^morti^. Aviamo un vantaggio più di voi che sapiamo el termine de la nostra vita, se già non si può vivar senza pane. E dio ci aiti lui che per noi le persone non ci possano niente. Filenio è guarito ed è vispo e dice el babbo tornarà. Dice ogni cosa come vede una lettera e dice la mandò el babbo a la mamma et come mi vede scrivare dice la mamma scrive al babbo. E vi si raccomanda, ed è quanto bene che noi aviamo, e quanto spasso è in casa. Intendo che gli Otto si lamentano di voi che none scrivete mai […]
Notizie raccolte da: “Amor di carità e difesa delle bocche disutili” negli ultimi mesi dell’assedio di Siena, di Maria Ludovica Lenzi, da una pubblicazione dell’Accademia dei Rozzi di Siena. I corsivi sono tratti per gran parte dal “Diario delle cose avvenute in Siena dal 20 luglio 1550 al 28 giugno 1555” di A. Sozzini. La lettera di Laura Buoninsegni al marito è tratta da “the Medici Archive Project”.
12 risposte a Le “Bocche disutili”, una triste pagina della nostra storia