di Fabio Di Meo
Traggo spunto per questo mio intervento, ringraziando i gestori del blog per l’opportunità garantitami, dalla proposta di Fiorani nell’articolo “i costi della democrazia”: la sua idea, che condivido in pieno, è riassumibile nella frase “fornire servizi gratuiti alle espressioni democratiche”.
Una proposta che può investire, a mio avviso, sia lo Stato nel suo rapporto con i soggetti della politica, che gli enti locali nel loro sostegno all’associazionismo. Partiamo da quest’ultimo aspetto, perché poi le intenzioni si scontrano con l’amara realtà.
Fiorani parla in sintesi di garantire spazi gratuiti ad associazioni e similari: ecco, la spending review rende stupidamente difficile anche questo per i Comuni, obbligando a garantire che il patrimonio pubblico fornisca reddito sempre e comunque. Un approccio miope, aziendalistico, che dobbiamo superare: una cosa infatti è valorizzare il patrimonio pubblico, altra è costringere i Comuni a fare gli imprenditori sulla testa delle libere espressioni associative dei cittadini.
Addirittura le nuove normative hanno reso arduo per legge dare contributi e liberalità ad associazioni che forniscono attività civica volontaria, in nome del libero dispiegamento della competitività di mercato. Non dico questo, mi si creda, per nascondermi dietro un dito: la spending review l’ha votata anche il mio partito (ammettiamolo un po’ sotto ricatto, ma lasciamo stare), e non nego che alcune cose si possano fare tra le pieghe della normativa, ma è innegabile che il paradigma sia sbagliato e penalizzante.
E’ urgente aprire un fronte di dibattito pubblico, e poi speriamo anche d’azione politica, al fine di tirare fuori la pubblica amministrazione da quel cul de sac economicista che la ingessa dentro un modello che non tiene conto che i cittadini non sono clienti o utenti, sono appunto cittadini, categorie da non confondere tra loro. E che non tiene conto che il metro di misura dell’efficienza amministrativa non può essere solo di natura patrimoniale e finanziario, ma deve investire anche ambiti etici, civici, insomma deve essere declinato sui fondamenti democratici del vivere collettivo.
Altro tema è il finanziamento pubblico ai partiti. Partendo anche in questo caso dal principio “fornire servizi gratuiti alle espressioni democratiche”, mi sentirei di avanzare una proposta, di cui ovviamente non sono il depositario essendo stata dibattuta in molte sedi, compresa quella del “Confronto Italiano” organizzata dal Comune di Cetona (vedi sul sito www.confrontoitaliano.it).
Perché non trasformare il finanziamento ai partiti da flusso di risorse finanziarie trasferite dallo Stato ai Partiti in base al consenso elettorale quale è oggi, a servizi garantiti dallo Stato a partiti, ai movimenti politici e ai movimenti civici in proporzione alla rilevanza civica e territoriale degli stessi? Proponiamoci di superare i tre principi sui quali si basa oggi il finanziamento ai partiti (per meglio dire tecnicamente il rimborso elettorale).
Primo, superiamo il principio della erogazione di denaro, andando verso la fornitura diretta di servizi, o quando non è possibile il rimborso dietro documentazione di alcune spese contingentate, standardizzate e controllate dallo Stato. Ti servono i manifesti? Te li stampa lo Stato. Hai necessità di dipendenti vista l’ampia strutturazione della tua attività? Decide lo Stato di quanti ne hai bisogno e quanti debbono essere pagati, e ti rimborsa le spese su documentazione.
Secondo, superiamo il principio del “solo ai partiti”, riconoscendo che le espressioni democratiche della politica sono molto più ampie, e dunque garantendo servizi, nel modo prima indicato, oltre che ai partiti, anche ai movimenti civici e politici, o comunque a tutti coloro per i quali lo Stato riconosca la rilevanza pubblica, nell’interesse generale, della loro attività politica.
Terzo, superiamo il principio del “ti do in base a quanti voti prendi”, riconoscendo che i voti presi alle elezioni politiche non necessariamente rispecchiano la rilevanza civica di un soggetto politico, e che si può fare politica, e si ha il diritto di farlo, anche senza entrare in Parlamento (pur riconoscendo che la gestione della rappresentanza parlamentare ha una sua specificità in termini di entità della rilevanza). E sostituiamo a questo principio altri criteri di misurazione della rilevanza.
(il numero degli iscritti in combinazione con l’adesione alle iniziative organizzate e alla espansione territoriale?)
Ovviamente per fare tutto ciò è necessario una legge sui partiti, anzi una legge sulle “espressioni democratiche”.
6 risposte a La mia proposta per i costi della democrazia